Arkham Rinato

Mag 15, 2011

Copertina

Testi: David Hine
Disegni:
Jeremy Haun e Scott McDaniel
Edizione originale:
Arkham Reborn #1/3, Detective Comics #864/5 e #867/870
Edizione italiana:
Arkham Rinato, Planeta DeAgostini, 200 pp, 18,95 €.

 

Jeremiah Arkham

Giorno zero. Ancora una volta, il Manicomio Arkham apre finalmente i suoi cancelli.

Nel 1989 le fondamenta del batverse subivano un importante scossone ad opera di un Grant Morrison ancora esordiente nel suo approccio al mito del Cavaliere Oscuro. Un’opera prima destinata a lanciarne il nome nell’olimpo del fumetto mainstream americano.
Con Arkham Asylum: A Serious House on Serious Earth, l’epopea del manicomio criminale più conosciuto dell’universo comics poteva dirsi appena iniziata, strappato da quella parentesi di anonimato che l’aveva fino a quel momento strozzato, per trasformarsi in un vero e proprio microcosmo, un corpo maledettamente pulsante e dotato di vita propria. Come un male artificiale calato ed innestato nel seno di una città già da tempo prostrata da ogni genere di perversità.
Con Grant Morrison tutto questo male veniva riunito e racchiuso in un unico, folle, recinto. Questa l’immagine del manicomio sopravvissuta fino ai giorni nostri. Un fascino che difficilmente avrebbe potuto trovare scarso seguito.
Dopo Morrison: Alan Grant, Dan Slott e Neil Gaiman. Molti gli scrittori che si sono assunti il compito di ergere l’Arkham Asylum a protagonista delle proprie storie, ad aggiungere qualcosa di proprio: una nuova pennellata di pazzia su un simile arazzo.
David Hine
è tra questi. Non un semplice tentativo però, bensì un successo in piena regola. Un nuovo tassello ad incastrarsi perfettamente nel puzzle.

Jeremiah ArkhamDebitore di quanti lo hanno preceduto, alle loro opere legato da continui rimandi e omaggi, Hine parte dalle contorte e malate atmosfere morrisoniane per fornire uno spaccato di Arkham che vibra di mentalità corrotte e, soprattutto, di violenza.
Tutto Arkham Reborn, miniserie in tre numeri, altro non è che un costante crescendo di violenza fino al clou raggiunto dalla morte dell’Uomo in Cenci, in un binario parallelo che accompagna peraltro il deragliare della razionalità del dott. Jeremiah Arkham, abbandonatosi lentamente tra le braccia della maschera nera (cit. “Finalmente sono riuscito a capire chi sono. Il mio vero io. Non lo combatterò più. Che cosa intendo? Non c’è bisogno di essere pazzi qui, ma di certo aiuta.”).
Riprendendo le fila di quanto narrato tra le pagine di Arkham Asylum: The Place Where Beauty Lies, lo special legato agli eventi della Battle, lo scrittore riporta alla luce le Tre Bellezze, riservando loro quel colpo di scena che dispiega magistralmente su Detective Comics #865, insieme al numero successivo, vero epilogo ad Arkham Reborn.
Ma non è abbastanza. Hine non si trattiene.  Strettamente legato alla rivelazione sulle Tre Bellezze è infatti il risolversi di un altro mistero: l’identità del volto da tempo celato sotto le lugubri sembianze di quel nuovo Maschera Nera responsabile del caos nel quale Gotham City si è vista cadere all’indomani della scomparsa di Bruce Wayne.
Un altro colpo di scena. Quest’ultimo, però, precluso al lettore italiano a causa della scelta editoriale della Planeta di anticipare l’uscita di quel Batman: Life After Death di Tony S. Daniel in patria pubblicato, invece, a Reborn conclusa. Gran parte dell’effetto originario viene così meno.

…Vedete che sono più interessato ai thriller psicologici che alle storie d’azione. Ho imparato a scrivere scene d’azione in quanto fanno parte dei fumetti mainstream americani, ma quelle scene sono sempre meno importanti rispetto al materiale psicologico.

Poca azione nella saga arkhamita di Hine. Poca azione e poco Batman.
Tutto ciò che allo scrittore pare interessare è il tuffarsi in profondità, nei meandri della psiche umana, per poi descriverne gli aspetti più malsani e spaventosi. Hine mina la stabilità di quella razionalità alla quale tutti noi tentiamo convulsamente e quotidianamente di aggrapparci. Ne denuncia quasi la finzione, preoccupandosi di mettere in guardia il lettore dalla onnipresente possibilità di vedersi crollare da un momento all’altro il proprio mondo fatto di certezze e sicurezze. Il dott. Jeremiah Arkham ne diventa chiaro esempio.
Foglio bianco sul quale poter ampiamente scrivere, questo nipote dell’Amadeus Arkham di morrisoniana memoria si è presentato alla corte di Hine facendo bella mostra di un vasto potenziale in realtà mai sfruttato. Hine lo ha plasmato come creta, riuscendo così in poco tempo ad imporlo con forza sulla scena che conta.
Il tema alla base di questa sorta di re-style è tra i più classici, almeno per quanto riguarda il mito del Cavaliere Oscuro. E’ la maschera, con il suo seguito di metafore e simbologie, timori e sotterfugi, ad essere nuovamente eletta al centro dell’attenzione, spostandosi poi a monopolizzare anche le vicende di Impostors, la storia in quattro parti narrata sui numeri #867/870 di Detective Comics.
Accanto, l’altrettanto classico topos della doppia personalità, alla dott. Jekyll e Mr. Hyde. Un sempreverde per la descrizione di animi infelici e corrosi dal tormento.

Arkham AsylumCiò che Hine non fa è comunque servire al lettore un piatto già pronto, preferendo piuttosto accompagnarlo per mano nella discesa verso gli abissi della più bieca follia. Il tutto reso ancor più suggestivo dal preciso ritmo infuso alla narrazione: una studiata suspance, al di là del crescendo di violenza, ottenuta mediante un sapiente filtraggio delle informazioni. E’ come una partita a carte… Di ognuno dei suoi riuscitissimi personaggi, ciascuno caratterizzato da uno specifico e, naturalmente, contorto passato, il lettore apprende un particolare alla volta, scena dopo scena, ritrovandosi così costretto ad attendere trepidante, spinto a rimescolare carte ed idee al sopraggiungere di quella nuova informazione più forte e incisiva. Così fino alla rivelazione finale: dell’infanzia di Reggedy Man, dell’amore infelice di Alice Sinner, dello stesso destino di Amadeus Arkham.
Suspance, quindi. Una sensazione di terribile e patetico presagio che aleggia pagina su pagina anche grazie ad un Jeremy Haun dalle malinconiche sfumature e dai tremolanti contorni delle vignette. Un colore poco acceso (eccezion fatta per i nastri della Sinner) fa il resto.

E infine il già citato Impostors, dove Hine pare quasi essersi voluto scusare della piega esclusivamente psicologica adottata durante la gita ad Arkham.
Qui l’azione è più che presente, resa ancor più palpabile e, purtroppo, confusa dai disegni di un Scott McDaniel forse non propriamente adatto a trasferire su carta quel gusto di malata follia nei testi di Hine sempre presente. Un peccato.
Il quartetto grafico (oltre al disegnatore, Andy Owens alle chine e Boron/Passalaqua ai colori) se infatti ben riesce a rendere il caos delle baruffe tra Jokerz e Batfanz, che come bacilli tempesta questi quattro numeri di Detective Comics, dall’altro attenuano parte delle malate atmosfere da Hine ideate. Perché anche Impostors, nonostante l’apparente trama fatta di eserciti di pagliacci e nerd in costume, galleggia in un mare fondamentalmente scuro e tormentato, come ci si aspetterebbe, del resto, da ogni bat-storia che si rispetti.

CopertinaIn una giostra di omaggi a Morrison, Moore o al Batman cinematografico, un richiamo alla storia moderna con la Fiera di San Bartolomeo e alla storia contemporanea con il fenomeno del flash mob, la mitologia del Cavaliere Oscuro si arricchisce di un nuovo psicotico profilo: quel tal Winslow Heath, il cui background in realtà tanto deve ad alcune trovate già sviluppate a partire dalla golden age (emblematico il caso Two-Face). Molte le scene forti (dall’assassinio del piccolo Robin alla scoperta del cadavere di Elizabeth), molte le denuncie sociali, molte le sensazioni con le quali il lettore dovrà trovarsi costretto a convivere durante la lettura. E molti, infine, gli applausi che spettano di diritto a questo breve frammento della continuity del Cavaliere Oscuro, in attesa, si spera, di un futuro ritorno di Hine al bat-timone.