Stitches

Ago 30, 2012

Autore: David Small
Casa Editrice: Rizzoli/Lizard
Formato:17×24 cm, 336 pp, b/n
Prezzo: 19,00 euro

David, quattordicenne come tanti altri, si sottopone ad un’operazione apparentemente di routine, ma al suo risveglio scopre di non essere più in grado di parlare. Una corda vocale gli è stata rimossa, e i 29 punti (stitches, appunto) applicati per richiudere una ferita alla gola ora lo hanno reso praticamente muto.
In quel momento David scopre qualcosa che i suoi genitori e i medici non gli avevano detto: aveva un tumore alla gola, e l’operazione era una scelta estrema per evitare il suo destino di morte.

Un bambino si china sui bordi del foglio che aveva consuetudine disegnare.
Si sporge e ci si tuffa come fosse un ritaglio d’acqua, perdendosi in quell’accecante bianco.
Una tavola talmente semplice, ma altrettanto talmente eloquente, da racchiudere in se stessa il significato più sincero di questo racconto autobiografico.
David è destinato a sfuggire alla consuetudine dell’infanzia, che il buon senso comune consacra alla spensieratezza e all’innocenza, a favore di un periodo di profondo dolore.
I suoi occhi così grandi e aperti nei confronti di una vita tutta da scoprire, trovano il loro opposto nei piccoli e freddi occhi del mondo degli adulti, soprattutto da parte della madre, che sanno comunicare quasi esclusivamente attraverso il mutismo e i consueti rumori di un’esistenza abitudinaria.
Addirittura gli occhiali, indossati dal padre e dalla maggior parte dei medici che si occuperanno del suo caso, vengono trasposti come schermi impenetrabili, asettici, scrutatori ma non scrutabili di uomini semi-impassibili come robot.
Ed è forse questo il vero primo aspetto che colpisce il lettore: se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima è allora altrettanto vero che una delle cose più brutte del diventare adulti risieda proprio in questo, nella perdita di quella meraviglia, di quella “apertura verso il mondo” che quando si è bambini fa osservare ogni cosa, anche la più negativa, sotto una luce speciale.

A tutto questo si aggiunge la malattia, quel tumore che lo renderà semi-muto, che paradossalmente diventerà l’incarnazione di uno stato d’animo, per cui se prima quel silenzio, seppur assordante e significativo agli occhi di David, era generato da un fattore “caratteriale”, ora è ancor più invalicabile da una mancanza fisica che incide sulla sua voce.
Grottescamente, questa realtà obbligata, diverrà anche la lama che squarcerà il velo di Maya dell’autore, che lo porterà ad una profonda riflessione su se stesso, sul suo mondo, sul contensto sociale in cui vive ed è cresciuto; quel bambino che percepiva ma non voleva vedere, ora è cresciuto, contempla sua madre come la donna che è… scostante, menefreghista, che non rivela mai un sentimento anche solo lontanamente paragonabile all’affetto, bigotta (considera ‘Lolita’ di Nabokov pornografia), la cui unica felicità, i suoi unici slanci di entusiasmo, sono tutti proiettati verso il sogno di un riscatto sociale, un’ascesa, una vita di facciata in cui l’apparire è la sola cosa che conta.
Il suo essere ossessionata dal denaro e dalle spese, non le impedisce di dare precedenza all’acquisto di macchina e arredo rispetto alla spesa per l’operazione di David, come se la felicità derivasse dalle cose, piuttosto che dalle persone.

Fondamentalmente manca l’amore.
Non c’è mai stato amore per lui da parte della madre, che l’ha sempre rifiutato.
E’ qui che subentra la potenza dell’arte: essa può essere considerata ancora una via di fuga, un lasciapassare per il recupero di un mondo che l’età adulta spazza via troppo rapidamente, un mezzo per esprimere con immediatezza e sincerità ciò che realmente si nasconde dentro di noi.
Con estrema bellezza il pianto liberatorio dell’autore difronte alla lucidità di un’amore mancato, è rappresentato da una vivida pioggia che copre tutti i luoghi in cui David è vissuto.

David Small fuggirà da casa, si conquisterà la sua libertà, la sua felicità, abbracciando quell’arte che l’aveva sempre salvato, che gli aveva permesso di sognare qualcosa di migliore anche nei momenti più duri e bui. Questa storia non emozionerebbe allo stesso modo, se anche i disegni non rispecchiassero il vissuto raccontato: il suo tratto è semplice ma immediato, estremamente dinamico e “vivo”,  oltremodo espressivo (tanto che in moltissimi casi il silenzio delle vignette esplica più di mille parole), sempre in bilico tra un bianco e nero suggestivo ed efficaci chiaroscuri.
Le vignette e le inquadrature sembrano costantemente tenere schiacciato o ingabbiato il piccolo protagonista, così come le tavole che si alternano da splash page a pagine bianche, in cui spicca un singolo dettaglio che assume una notevole potenza visiva e simbolica.
Ricchissimi sono anche gli intermezzi onirici che popolano la vivida fantasia del ragazzo, in parte mutuati dalla “Alice nel paese delle meraviglie” di Carroll, e che rappresentano una sensibilità che si è fatta visionaria, tanto che lo psicologo che aiuterà l’autore sarà raffigurato come come il Bianconiglio (veramente simile a quello presente in Inland Empire di Lynch).

In definitiva, con Stiches, avrete su carta un groviglio di sentimenti di fronte alle quali è impossibile rimanere indifferenti.
Un altro buon esempio di quanto l’arte possa salvare le persone.