Copertina di "Lavori forzati"

Soggetto e sceneggiatura: Giovanni Di Gregorio
Disegni: Maurizio Di Vincenzo

Prima fu la volta di Cose dell’altro mondo, con una critica ai moderni giochi tecnologici rei di distruggere l’inventiva dei nostri ragazzi, poi toccò Il re delle mosche ed alla sua denuncia dei baronati universitari e poi, ancora, con Il persecutore, si passò alla tanto odiata burocrazia. Ora, invece, è la volta del lavoro in nero, dello sfruttamento degli extracomunitari.
Nuovamente, ma senza riuscire però nemmeno lontanamente ad avvicinarsi all’ottima prove de Il persecutore, Giovanni Di Gregorio porta in scena una storia atta a sostenere la solita critica sociale di fondo, verso la cui realizzazione piegare l’intera trama. Ed è proprio questa ricerca spasmodica del voler a tutti i costi inserire un importante messaggio nelle sue sceneggiature che non gli permette forse di dedicare, in qualche caso, una maggior attenzione all’intreccio narrativo, di ben equilibrare tutti quegli ingredienti necessari per dar vita ad un prodotto capace di appassionare realmente il lettore.
Lavori forzati finisce così per appiattarsi in un sonnolento svolgimento, il cui traguardo, quel mistero, chiave di quanto sta al London Clipperaccadendo, diventa ben chiaro molto prima della rivelazione finale. La storia si deforma in una sterile ennesima riflessione sulla malfunzionante società di oggi,  inclinata dalla retorica ed indebolita dalla ripetitività del fine digregoriano.
Anche perché Lavori forzati è una storia senza scossoni, nessun cambio di inquadrature o introduzione di nuovi personaggi, nè colpi di scena atti a spezzare il continuum narrativo e fornire, così, dinamicità al racconto. Ogni frase, ogni gesto ed ogni inquadratura è tutto un lento spingere i personaggi verso il centro del piano fantasma, verso la conclusione e quindi la denuncia dell’ennesimo cancro della società.
Il contorno però c’è. Caratteristica essenziale della scrittura di Di Gregorio è il ricorrere ad una dimensione estremamente fantastica e surreale all’interno della quale movimentare le proprie sceneggiature. Il Dylan Dog di Di Gregorio è una versione moderna dell’Alice di Lewis Carroll, il più delle volte catapultato in una maratonda di esseri bizzarri, mondi irreali ed avvenimenti incredibili che donano alle sue avventure un personale e riconoscibilissimo tocco d’autore.
Ed infatti il tredicesimo piano, con le sue guardie tanto simili alle antiche divinità egizie mezze animali e mezze uomini incaricate di custodire un penoso e miserevole campo di lavori forzati la cui crudezza e disumanità non può che richiamare alla mente le agonie dei lager nazisti, diventa il perfetto teatro per la florida inventiva del giovane autore, fornendoci così un solido appiglio al quale aggrapparsi di fronte all’altrimenti desolante debolezza dell’albo.
Inutile precisare come la riuscita di tale fantasioso scenario debba anche (e soprattutto) essere riconoscente ai disegni di Maurizio Di Vincenzo, artista da tempo assente dalle scene bonelliane.
Accanto agli spaventosi uomini-cobra, capaci di incutere più terrore di un centinaio di scene splatter messe insieme, è la capacità di trasformare in immagini sentimenti quali solitudine, rassegnazione e malinconia a rendere il lettore davvero partecipe del dramma che i malcapitati del tredicesimo piano sono costretti a vivere.