Soggetto e sceneggiatura: Tiziano Sclavi
Disegni: Angelo Stano
“Una storia assolutamente unica nella saga di Dylan Dog e nel fumetto mondiale”
Con quest’enfasi, resa da tante altre simili frasi d’impatto, la Bonelli si è impegnata a suo tempo a pubblicizzare in pompa magna tale numero di Dylan Dog, in effetti già degno di nota perché ha visto il ritorno del buon vecchio Sclavi ai testi della sua creatura dopo un’assenza, allora, di ben cinque anni. A suo fianco, altro elemento già bastante per giustificare l’altisonante pubblicità della casa editrice, Angelo Stano, disegnatore storico della serie, artefice dell’ormai lontano primo numero e qui in forma a dir poco strepitosa.
L’attesa dei lettori era alle stelle. Molti forse ne saranno rimasti delusi, vittime di un’alta aspettativa che spesso può tramutarsi in delusione, altrettanti, invece, soddisfatti ed appagati.
Comunque sia andata, come era stato promesso, L’assassino è tra noi ha lasciato il segno, con una trama di per sé semplice, volendo anche spartana da un punto di vista del dialogo, ma dal finale estremamente incisivo e sorprendente. Una storia unica, forse non in seno al panorama mondiale del fumetto, ma certamente nella saga di Dylan Dog. Un Dylan Dog che qui non è Dylan Dog, un eroe che per la prima volta si vede sfrattato dalla propria collana. E già ciò basterebbe per dar conferma a quelle parole enfatiche che hanno dato inizio a questo sproloquio.
L’assassino è tra noi è una storia che sorprende, il cui vero intento non è tanto quello di convincere lo spettatore della propria perfezione stilistica, di una trama ben delineata e senza errori di sceneggiatura o della profonda psicologia dei suoi personaggi. No, ciò che si propone è altro: strabiliare, far strabuzzare gli occhi al lettore nel momento della rivelazione finale, lasciare un retrogusto di incredulità ed ammirazione a volume chiuso. Ecco cosa Stano si è promesso di fare.
E non ha importanza se L’assassino è tra noi faccia propria una trovata già da altri utilizzata, se quel tema tanto decantato possa essere rintracciato in un film o in due telefilm. L’importante è che riesca, che funzioni sul momento della scoperta, emotivamente d’impatto, delegando al dopo lettura eventuali altri approcci razionali o critici.
Perché, in effetti, sta tutto in quel frangente finale, nel quale la verità si dipana dinnanzi agli occhi del lettore. Prima abbiamo soltanto una storia modesta, ben delineata per carità, ma senza alcuna vera pretesa. E’ la solita faccenda del killer che miete una dopo l’altra le vite di un gruppo di ignari individui rinchiusi nella medesima gabbia. Un compito da Sclavi ben eseguito, ma impreziosito e reso indimenticabile solo dal suo magnifico finale.
Qualche indizio in fondo c’è. Un paio di particolari incaricati di indirizzare l’osservatore più attento verso la giusta direzione, ma si tratta di piccolezze. Particolari che assumono un vero significato soltanto alla fine.
Accanto a Sclavi, come prima accennato, Angelo Stano. Con una sceneggiatura perlopiù scandita da vuoti e silenzi, sono i suoi disegni a lasciare senza fiato. Una vera prova d’autore.
L’angusto Bates Motel (citazione dell’albo Dal profondo), unico teatro della vicenda, è immerso in una notte vessata dal più terribile dei temporali. Riuscendo a trasmettere al lettore un’atmosfera di vera angoscia e claustrofobia, Stano è in grado di far sembrare vera quella pioggia, utilizzandola in molte occasioni come un velo dietro al quale dipanare ben più mostruose realtà (la splendida Mietitrice di pagina 50 ne è un chiaro esempio).
Un consiglio infine s’impone per meglio gustarsi quest’ennesima fatica di Sclavi, un piccolo espediente da rispettare per poter maggiormente apprezzare quanto la storia si propone di fare: non leggere alcuna recensione prima di aver posato gli occhi sull’ultima vignetta della storia.
“Mi chiamo Jeremy, Jeremy Irons”.