C’è un solo modo per definire in maniera calzante l’enorme influenza che il fumetto moderno ha ricevuto dal lavoro di Moore e soci su Swamp Thing: paragonarlo al classico battito d’ali della farfalla.
Gli anni ’80, uno dei decenni più prolifici e caratteristici per quanto riguarda il medium fumetto, furono travolti da una vera e propria tempesta artistica; nel caos della tempesta, un manipolo di scrittori di provenienza britannica riuscì a prendere di prepotenza le redini del carro, e fra questi, lo sciamano Alan Moore.
Ma nemmeno lo stesso Moore, di certo non famoso per i suoi sfoggi di modestia, poteva prevedere, nell’ormai remoto ’83, il peso che avrebbe avuto ciò che si apprestava a scrivere sulle pagine di una delle testate meno vendute del periodo: Swamp Thing, la creatura di Len Wein, il mostro della Palude.

Accompagnato dal sublime lavoro di Steve Bissette alle matite e di John Totleben alle chine, Alan Moore ha firmato quello che forse è il più grande punto di svolta nella storia del fumetto moderno. Dopo essersi limitato a chiudere le trame dei numeri antecedenti con l’episodio 20, un vero e proprio sacrificio in vista dell’effettivo rilancio che avrebbe di lì a poco avuto luogo, il team apre le danze con uno dei più celebri ed emblematici esempi di continuity retroattiva: la Lezione d’Anatomia.

Swamp Thing, coscienza umana imprigionata nel corpo mostruoso di un ibrido vegetale, si risveglia ancora una volta in quell’artificio verde che a lungo è stato la tomba della sua anima: un costrutto che si rifiuta di morire, anche di fronte a numerose ferite mortali.
E nelle prime pagine di questa epopea, egli finisce subito a confrontarsi coi suoi terrori più insopportabili: può un cuore smettere di pompare, quando è solo una pallida imitazione di quello umano ? Possono i polmoni smettere di respirare, e il sangue smettere di attraversare le vene fibrose, se in verità non è altro che linfa ?
Ma quei dubbi atroci altro non sono che l’inizio del suo viaggio alla ricerca della sua identità: la creatura non può far altro che interrogare se stessa, il proprio corpo ed ogni sua estensione; non può che chiedere a chiunque possa saperne di più, nella speranza di trovare qualcuno che gli somigli davvero, e che possa guidarlo nel mondo verde vegetale tanto bene quanto era avvenuto nel mondo rosso di carne; l’unica casa che fino ad allora aveva conosciuto, e dalla quale senza diritto d’obiezione era stato tanto brutalmente sfrattato.

Moore approfitta di questo lento viaggio compiuto da Swamp Thing, accanto alla sua inseparabile compagna di vita, la candida Abigail, per visitare e rivisitare il mondo fatto di orrori e sciagure che circonda e macchia le verdeggianti paludi della Lousiana.
In quella che è, con gran probabilità, la migliore saga mai scritta sul mostro della palude, American Gothic, egli riscrive il folclore ed i miti del terrore d’oltreoceano: dai vampiri ai licantropi, dagli spettri ai morti viventi, numerose creature si avvicendano sulle pagine della testata, trasformandola in un vero e proprio tunnel degli orrori cartaceo; inoltre, coglie al balzo l’occasione per utilizzare numerosi personaggi dell’universo DC mistico, sfruttando lo Straniero Fantasma, a lui tanto caro e del quale si è anche preoccupato di scrivere le origini segrete, così come molti altri: da Etrigan a Deadman, da Zatara allo Spettro. E nel delineare il mondo della magia attorno alla creatura, finisce per creare anche quello che, di lì a poco, sarebbe divenuto uno dei personaggi più popolari e carismatici dell’universo Vertigo: il mago anticonformista John Constantine, custode di numerosi segreti, abile nel manipolare le persone a suo piacimento e per i suoi fini.

Ma lo sciamano, il quale mai si limita a narrare storie fini a se stesse, strumentalizza l’ambientazione horror e vi nasconde ogni genere di metafora sociale ed un’aspra critica naturalista. Dalla condizione del gentil sesso a quella delle minoranze sociali, in un’America che ancora si lecca le profonde cicatrici dello schiavismo, fino alla sistematica perdita dei valori nei giovani, ogni argomento è affrontato con una sensibilità ed un tocco di lirismo senza eguali. Fortissimi poi, come precedentemente accennato, sono i riferimenti al massacro perpetrato dall’uomo nei confronti della natura, come nei casi del disboscamento della foresta Amazzonica o dell’abbandono di rifiuti tossici nei pressi di boschi e paludi. La presenza di un discorso sociale e naturalista così tentacolare rende ancor più valore artistico all’opera e ad i suoi autori, i quali si trovano a scrivere in alcuni tratti quasi due storie in parallelo: ciò che realmente leggiamo, ed il suo macabro riflesso sul mondo reale che ci circonda.

Il viaggio di Swamp Thing, quindi, è un viaggio a metà fra realtà e fantasia, fra materia e magia, che attraversa le popolose metropoli ed i più remoti angoli di questo mondo, spingendosi talvolta persino oltre.

Ma la grandezza dell’opera non è solo da ricercare nei contenuti, bensì anche nel totale capovolgimento tecnico che ha rappresentato per il fumetto come forma d’arte.
La prosa dell’autore inglese, colta e lirica, rimanda sin da subito a molti dei temi cari alla poesia di fine ‘800; essa salta come una cavalletta di metafora in metafora, rendendo ogni simbolo schiavo di un significato superiore, senza mai mortificarne l’estetica.
Una prosa estremamente originale per l’ambito fumettistico mainstream, che si alterna di tanto in tanto ai pensieri dei personaggi protagonisti, e che esclude totalmente dalla narrazione quelle didascalie colme delle descrizioni inutili di eventi già intuibili attraverso le immagini. Ed è proprio questa sinergia fra la prosa dello sciamano e lo stupefacente lavoro di Bissette e Totleben nel reparto grafico, i quali raggiungono il proprio culmine artistico con l’eccellente Rito della Primavera, ad elevare questa serie nell’olimpo delle più grandi. Non mancano inoltre momenti di pura sperimentazione grafica, come per esempio nel caso dell’episodio Amore per l’Alieno, in cui Moore chiede a Bissette di spingersi oltre i suoi limiti, per dar vita ad uno dei lavori più bizzarri e carichi dell’intera serie. Il fumetto, progressivamente spogliato di tutte le sue caratteristiche più ingenue, dai numerosi punti esclamativi all’utilizzo eccessivo di onomatopee, si evolve ed in poco tempo diventa del tutto differente dai lavori ad esso contemporanei.

E mentre Alan Moore si avviava alla conclusione della sua gestione, quando ormai nuovi e freschissimi canoni tecnici ed artistici erano stati scolpiti nella pietra da questo dream team traboccante di idee, anche il viaggio di Swamp Thing verteva al termine. Dopo aver attraversato ogni angolo del globo, dopo aver approfondito la propria conoscenza di se stesso, e dei mondi che lo circondano, la creatura della palude può finalmente sedersi e riposare. E noi, che lo abbiamo seguito attoniti per ogni deviazione, non importa quanto tortuosa fosse la strada; noi, che come lui abbiamo aperto gli occhi su tutte le meraviglie e le barbarie che questo piccolo mondo può contenere, forse possiamo posare il fumetto sullo scaffale, e rasserenarci, ammettendo che grazie a lui conosciamo un po’ meglio la nostra, di natura.

Almeno, fino al prossimo tramonto.