Titolo: Gli ultimi giorni di Pompeo
Autore: Andrea Pazienza
Editore: Fandango Libri
Data di Pubblicazione: Ottobre 2011
Pagine: 125 B\N
Prezzo: 20 euro
“Cercò la paura ma non la trovò”
Mi sono ritrovato a navigare fra le pagine di Pompeo quasi per caso, e in quelle pagine sono naufragato.
Ho fatto la conoscienza di uno dei più importanti fumettisti italiani a ritroso, partendo dalla fine, contemplando le vicende di questo personaggio di carta che nasconde in se stesso i disagi reali e concreti di un’esistenza tormentata.
Mi è stato subito chiaro di quanto onesto e sincero fosse quel racconto, di quanto fosse coraggioso e risoluto nel mostrarsi senza filtri nei confronti del lettore.
Ho inteso un grande senso di liberazione, un enorme prova artistica, come se l’arte che l’aveva consacrato e reso celebre in Italia e nel mondo, fosse l’unico mezzo per esorcizzare e debellare un profondo dolore nascosto nell’anima.
Ora anche lui, trasposto fumettisticamente, era imprigionato in quelle vignette che conosceva bene, in quei fogli sempre ricettacolo delle sue idee… ora anche lui poteva comunicare ciò che di più duro aveva da dire con il linguaggio dell’arte che amava.
Per questo, pur leggendo la sua ultima produzione, ho avuto la sensazione di averlo “conosciuto” davvero un pò Andrea, di essere riuscito a percepire i sentimenti che si nascondono fra quelle pagine, di aver condiviso con lui un pò del dolore descritto.
Il pennarello nero, sempre molto presente, quasi dominante, che tende a nascondere i pochi accenni di china, quasi come se il caos oscuro risucchiasse le poche rimanenze di un’esistenza ordinata, diventa la spada di un’uomo apparentemente stanco della vita, che non riesce a vedere un futuro e che cerca l’esclissi nella droga.
“Il futuro? Mi affatica il solo pensiero”
Un’uomo che muore d’amore, con pochi dialoghi e molti pensieri, che attraverso questo diario immaginato, cerca attraverso la sostanza stupefacente di riappropriarsi di immagini, di sensazioni fisiche e di frasi solo apparentemente prive di senso… così nella nebbia dei suoi vaneggiamenti, incontra di nuovo lei, l’amore perduto, e gli pare di poterne sentire ancora l’odore, di poterla toccare ancora, prima di lasciarla andare per sempre.
Si aggrappa al telefono, nell’ultima comunicazione con la madre, e tra frasi scolpite come epitaffi, gridate, che urlano straziate le ultime parole d’amore e d’affetto sincero, si congeda dall’ultima persona che avrebbe potuto aiutarlo. (La potenza visiva ed emotiva di questa scena lascia in me una sincera commozione ogni volta che mi capita di rileggerla.)
E così Andrea, come in uno stato metafisico, si libera totalmente da tutti i collaudati canoni artistici, imprimendo la forza del suo disegno su fogli improvvisati, su cartoncini quadrettati di scuola o pezzi di tovaglioli di carta di qualche bar tanto era più forte il bisogno di disegnare in maniera disperata, con un urgenza espressiva senza eguali. (Forse si inspira al fumetto underground statunitense, nella fattispecie quello di Robert Crumb, ma la durezza è la stessa.)
Le tavole seguono il variare degli stati di corpo e d’animo del protagonista, un’abilità nel modulare il suo stile che già gli apparteneva, ma che qui è ancora più evidente come vetta artistica. Ottima prova di poliedricità!
Ma in questo vortice, Pazienza non manca di un pizzico di ironia nell’utilizzare fin dal principio uno slang tutto inventato da lui, assolutamente unico e tagliente, fatto di neologismi e frasi dialettali pensato ed utilizzato sarcasticamente contro i venditori di parole travestiti da pseudo intellettuali.
Paz è geniale nel linguaggio allo stesso modo che nel disegno!
“In qusti anni ho scoperto di non essere un genio. Perche’ si’, lo confesso, da ragazzo ci speravo. Invece no, sono un fesso qualsiasi. Pero’, c’e’ sempre un pero’, e’ vero, sono un disegnatore eclettico. Un disegnatore ecletto-sfaticato. Poi ho scoperto di non essere attendibile, e di non essere tante altre cose, deficenze a volte gravi delle quali chiedo a qualcuno di perdonarmi.”
Forse Pazienza è stato veramente un autore legato ad un preciso periodo storico italiano.
Forse Bologna e gli anni della contestazione in cui è maturato gli sono rimasti inestricabilmente nel cuore, generazione un po’ geniale ed un po’ sciagurata che si è bruciata un po’ per l’aids, un po’ per l’eroina, un pò per la politica, ma Pompeo mi è sembrato tremendamente attuale ancora oggi, che sono passati 20 anni dalla sua morte.
Questo “male di vivere” è possibile notarlo anche oggi, anche fra i miei coetani, quasi come se questo nichilismo decadente venga trasmesso come una malattia genetica di generazione in generazione.
Una tragicomica cronaca che invece di essere bollata come “lettura consigliata ad un pubblico adulto”, a mio avviso dovrebbe andare ad unirsi a tutte quelle opere che possono rappresentare un’esempio di formazione verso i giovani, descrivendogli cosa significa essere tossicodipendenti, quale sia la spirale di godimento e autodistruzione, e a quali svolte brutali e vicoli ciechi porti.
“Vivo sulla lama, mi commuovo nei bassifondi, parlo coi ricercati dello Stato, brigo, mi procuro e dilapido milioni, poi rischio, mi struggo, mi umilio, mi arrendo. Poi mi faccio e tutto torna bello, più splendente di prima. Vuoi mettere risorgere, risorgere, risorgere”
Andrea è morto prematuramente nel 1988, qualche anno dopo Pompeo, ma la sua arte non l’ha tradito, rendendolo sempre “vivo” per le generazioni future.
“Cari Voi che mi avete seguito sin qui. Così finisce l’ultima puntata di Pompeo e, presumo, anche un lungo capitolo della mia vita.”