Città di vetro

Apr 16, 2012

Titolo: Città di vetro
Autore: Auster Paul, Karasik Paul
Disegnatore: David Mazzucchelli
Prezzo: € 14,00, € 22,00 (nuova edizione deluxe)
Formato: 174 p., B/N, brossura
Editore: Coconino Press

Città di vetro è il primo di una trilogia di romanzi (Trilogia di New York) scritti da Paul Auster tra il 1985 e il 1987.
La traduzione grafica del capolavoro di Auster a opera di David Mazzucchelli è nata in seno alla collana di classici illustrati “Neon Lit”, ideata da Art Spiegelman e Bob Callahan. Paul Karasik venne chiamato da Art Spiegelman quando, dopo numerosi tentativi di traposizione e per le difficoltà di adattamento, David Mazzucchelli iniziò a demoralizzarsi.

TRAMA: Lo scrittore di romanzi polizieschi Daniel Quinn riceve una telefonata nel cuore della notte da un individuo sconosciuto in preda alla disperazione che cerca Paul Auster, fantomatico investigatore dell'”Agenzia investigativa Auster”. Quinn chiude la comunicazione, ma nelle notti seguenti le chiamate si susseguono.
Mosso da spirito d’avventura, Quinn decide di assumere l’identità di Paul Auster.
Peter e Virginia Stillman ingaggiano Quinn, credendolo Paul Auster, per esser protetti dal padre di Peter, appena uscito dal carcere.
Padre e figlio portano lo stesso nome: Peter Stillman.
Il padre ha rinchiuso il piccolo Peter in una stanza per nove anni con l’intento di scoprire il linguaggio originale dell’innocenza, scomparso dopo che l’uomo acquisì il concetto del Male a seguito della caduta dall’Eden.

“Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso. Ma questo fu molto tempo dopo. All’inizio, non c’erano che il fatto e le sue conseguenze.”

Sono letteralmente scivolato nella lettura di “Città di Vetro” che, da ottima opera metafisica qual’è, concede pochissimi appigli narrativi certi.
Ho avuto la sensazione che tutto sia stato pensato come un vortice, che unisce e confonde e che instancabilmente disorienta anche il lettore più attento.
E’ un uomo che crolla, un’identità che si dimentica di sé, che disperde i suoi pezzi.
La città diventa un contenitore claustrofobico, pieno di sentieri sconoscuti in cui i personaggi si perdono senza una meta precisa, che come il vetro può mandare in mille pezzi l’attendibilità di una presunta sanità mentale, come un ambiente che tutto assorbe fino a negare l’identità spaziale e temporale degli individui e delle cose che la abitano.
Città che assume il significato ultimo della vita in quanto assenza della dimensione rassicurante della spiegazione, ed infine, come un labirinto di segni e mappe urbane che rimandano a significati misteriosi.

Ogni pagina, ogni vignetta, trasmette un’incredibile cascata di doppi sensi, identità simulate, menzogne che si incrociano, si biforcano, si sovrappongono e si scambiano.
Per questo, potrei dirvi che il protagonista si chiama Daniel Quinn, ma non sbaglierei se aggiungessi che potrebbe essere anche Auster o Wlliam Wilson o Max Work. Tutti diversi e tutti la stessa persona. Una sovrapposizione perfetta delle identità. Così come accade Peter Stillman… due persone, padre e figlio, dalla stessa identità.
Siamo tutti e due Peter Stillman. Strano vero? Dua persona posso avere lo stesso nome. Ma Peter Stillman non è il mio vero nome. Allora forse non sono Peter Stillman dopotutto.
Addirittura i nomi stessi potrebbero essere altre cose: Quinn può fare rima con “twin, gemello” oppure “sin, peccato“, “ quick, veloce” , “win, vincere“… “Quinn” va in tante direzioni tutte assieme!
Ma cosa sono queste se non semplici parole? E “Città di vetro” è anche questo: una riflessione sul linguaggio, sul rapporto tra le parole e le cose, la realtà e la sua rappresentazione.
Una sorta d’azzardo al trattato di semantica per farci comprendere di quanto le parole non siano un valore dai tempi della babilonia biblica, quantopiù un limite alla percezione umana, un limite netto all’espressione più pura, che non riescono più a cogliere il significato ultimo delle cose di cui possiamo avere esperienza.
L’inconsistenza della lingua ci è spiegata attraverso il personaggio si Stillman padre, sia per le decisione che prenderà nel corso della sua vita, sia in una delle tre discussioni con Quinn, in cui significativo sarà l’episodio dell’ombrello: la parola ombrello non indica solo l’oggetto composto da uno stelo, una raggiera di stanghette di metallo e un pezzo di tessuto teso tra le stanghette, ma anche la funzione di quell’oggetto, cioè riparare dalla pioggia. Ma, allora, quando un ombrello si rompe e non è più adeguato al suo scopo, perché continuiamo a chiamarlo ombrello?

Nei panni di un uomo il cui volontario anonimato ricalca con forza i tratti di una profondissima solitudine, saremo spinti esclusivamente dal caso; ci troveremo sempre difronte ad un bivio in cui saremo costretti a prendere una decisione forzata che a sua volta ci porterà a dei risvolti assolutamente imprevedibili ed infiniti.
“All’inizio, non c’erano che il fatto e le sue conseguenze. La questione non è se si sarebbero potuti sviluppare altrimenti o se invece tutto fosse già stabilito a partire dalla prima parola detta dallo sconosciuto. La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo.”

Il ritmo narrativo, pur partendo lento, trova il suo pathos più geniale nella meravigliosa conclusione in cui si creerà un parallelo chiaro fra la tecnica narrativa di quest’opera con quella presunta del Don Chisciotte di Cervantes. Non solo Daniel Quinn ha le stesse iniziali di “Don Quijote” ed insegue anch’esso un amore impossibile, ma è lo stesso Paul Auster, quello vero, che nel romanzo diviene il “doppio fittizio” di se stesso e riscrive la storia di Quinn attraverso gli appunti che Daniel aveva preso, esattamente come si racconta aver fatto Miguel de Cervantes, che sosteneva di non aver scritto lui il romanzo del Don Chisciotte , ma di averlo ritrovato in una edizione tradotta in spagnolo per conto dello stesso Don Chischiotte, traduzione basata su un manoscritto arabo che altro non era se non la trascrizione dei racconti narrati da Sancho Panza…  (da far male alla testa vero??? )

Mazzucchelli, come al solito, fa un lavoro magistrale.
Le sue immagini pesano come le parole. Entrano perfettamente in sintonia con lo spirito dell’opera.
Sanno conivolgere ed emozionare.

Credo che il finale sia una voluta riflessione sulla vita e su quanto c’è ancora da fare per coglierla appiento.
In un crescendo di immagini sbiadite e dissolvenze, Quinn scompare dalla storia perso irrimediabilmente nelle sue parole che rendono il tutto di grande impatto onirico.

… ovunque non sono, è il luogo dove sono me stesso e per quanto io cammini ho sempre la sensazione di essermi perduto. Per un qualche caso cado verso l’oscurità. Mi disgrego come la pagina che mi contiene e la mia voce viene a galla come Caronte che emerge dall’abisso. Pedinerò Stillman fino a scomparire, fino a dissolvermi come il linguaggio originale dell’innocenza. Scomparirò per un qualche caso….