arkham_asylum_follia

Autore: Sam Kieth (testi e disegni)
Casa Editrice: Planeta De Agostini
Provenienza: USA
Specifiche: € 13,95, 16,8 x 25,7, pp. 104, col.

Tra gli aspetti probabilmente più interessanti emersi in questi ultimi anni all’interno delle produzioni batmaniane c’è quella speciale attenzione rivolta da taluni scrittori, basti pensare a Grant Morrison o Scott Snyder, all’entità Gotham City, non più descritta come semplice palcoscenico sul quale far danzare i nostri amati personaggi, quanto, piuttosto, vero essere pulsante, quasi vivo; un organismo antico e perennemente affamato, la cui influenza è ben palpabile nella vita quotidiana di quanti hanno scelto di vivere tra le sue arterie. Gotham City è come un burattinaio che gioca con le proprie marionette.
E’ un po’ sfruttando quest’idea di “città viva”, novella Argo con i suoi innumerevoli palazzi dai molteplici segreti, che Sam Keith dà vita al curioso Arkham Asylum: Madness (pubblicato da noi dalla fu Planeta DeAgostini con il nome Arkham Asylum: Follia), coadiuvato nella colorazione, essendosi occupato sia della sceneggiatura che dei disegni, da Michelle Madsen e Dave Stewart. Una graphic novel che, sulla scia tematica di altri titoli quali il celebre Arkham Asylum di Grant Morrison o Arkham Asylum: Living Hell di Dan Scott, fa del tristemente noto manicomio criminale l’indiscusso protagonista della vicenda, vero attore in ferro e cemento.

– Un orologio che piange sangue.
Assurto a notorietà internazionale con The Maxxx (1993), Sam Keith ha visto la propria strada intrecciarsi con quella della DC Comics nel 2006, in una collaborazione, durata fino al 2010, conclusasi proprio conArkham Asylum: Follia, il saluto di commiato, l’ultima storia scritta e realizzata per la celebre casa editrice.
Un addio premiato da critica e pubblico, per ben due settimane al quinto posto nella periodica rubrica dedicata ai best-seller redatta dal New York Times.
Una graphic novel, di poco meno di un centinaio di pagine, in cui Keith ha potuto dar sfogo alla propria dirompente e, spesso distorta, creatività, qui rappresentata dalla fusione di tecniche assolutamente differenti, dal semplice disegno alla manipolazione fotografica, dall’utilizzo del digitale alla creazione di tavole ad acquarello; una giostra di alternative, anarchicamente  affiancate l’una all’altra, che trovano una propria giustificazione in ciò che l’artista ha cercato (riuscendoci) di fare: vestire la pazzia degli abiti giusti, trasportandone l’animo su carta.
Scandita da una tale girandola grafica, si dipana, tavola dopo tavola, una storia che fa della tensione il suo punto focale, appoggiandosi ad una perfetta lentezza narrativa che trova il proprio simbolo nel sanguinare di un orologio di morrisoniana memoria, elemento intorno al quale Keith costruisce la sensazione di un disastro imminente, ogni goccia un ulteriore passo verso la catastrofe. Lo spettatore ne è coinvolto. Poi, purtroppo, tutto s’interrompe.
Quando la narrazione, all’approssimarsi della mezzanotte, inizia infatti a velocizzarsi, quando l’attesa diventa certezza e la preparazione si tramuta in azione, ecco che la storia ne risente, perdendo a mio dire gran parte di quel fascino fino a quel momento conservato. Era l’attesa, il potenziale, il timore di ciò che sarebbe potuto accadere a rendere Arkham Asylum: Follia un vortice di sensazioni .
L’atmosfera era vincente, supportata peraltro dalla scelta di una narrazione molteplice, da più punti di vista, che concorreva a rendere ancor più palpabile quel senso di caos silenzioso, insito in una follia sul punto di esplodere.

– Un lavoro che deteriora.
L’incipit di Arkham Asylum: Follia è interessante. Se altre storie tematicamente simili si sono impegnate chi, come l’Arkham Asylum di Morrison, a studiare il legame tra il Cavaliere Oscuro ed il luogo spettrale, e chi, invece, come Scott, o anche Hine nel recente Arkham Reborn, la follia dei suoi ospiti, Keith sposta le attenzioni su coloro che all’Arkham Asylum ci lavorano, soffermandosi così sul peso e sull’influenza che il tristemente famoso edificio può avere sulla psiche di un normale essere umano, e lo fa creando il personaggio di Sabine, infermiera costretta a muoversi tra quei corridoi pulsanti terrore e pazzia per pure esigenze economiche, ed il cui unico modo per resistere è la certezza, una volta terminato il turno, di poter riabbracciare il figlioletto. Un’ancora di salvezza che attirerà naturalmente le attenzioni del Joker, costringendo la donna a partecipare ad un perverso gioco scandito da speranze e paure. Un cammino che la porterà a ridimensionare le proprie aspettative, andando incontro alla piena consapevolezza di ciò che la circonda.
Del resto, l’autore pare voler dirci, l’unica soluzione per tirare avanti, tentando di sopravvivere ad una vita trascorsa all’interno dell’Arkham Asylum (fuori o dentro le celle fa ben poca differenza…), è accettarne l’orrore, arrendendosi all’idea che, una volta varcati i cancelli, la propria vita non potrà più essere la stessa.