Titolo originale: The Girl with the Dragon Tattoo
Titolo italiano: Millennium – Uomini che Odiano le Donne
Paese: USA, Svezia, UK, Germania, Canada
Anno: 2011
Regia: David Fincher
Cast: Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer, Stellan Skarsgård, Joely Richardson & Robin Wright
Durata: 158 min.

 

Se è vero che il male si cela sempre e comunque in ogni luogo, lo stesso vale per il bene. Inizialmente siamo preda degli istinti, poi cominciamo a sollevarci e a comprendere il luogo che ci circonda e da cosa siamo attratti, poi siamo ciò che siamo, o meglio lo diveniamo: noi scegliamo di essere determinati uomini e date donne.

MILLENNIUM

Il giornalista Mikael Blomkvist lavora per la rivista Millennium e dopo una serie di articoli in cui attacca direttamente un magnate (a causa di loschi riciclaggi, non del tutto dimostrabili), e un processo che termina a suo sfavore, abbandona la stessa e opta per un periodo di “esilio”. Subitamente viene avvicinato da un industriale in pensione, che gli propone di indagare su un mistero che lo ossessiona da anni: la scomparsa di una delle sue nipoti. Il vertigo di eventi, emozioni e casi che si susseguono porteranno Mikael a incrociarsi, anzi, scontrarsi, con Lisbeth Salander. Lisbeth è una ragazza con un passato fatto di violenza e un presente ancora peggiore. Hacker, introversa e determinata, la giovane instaura con riluttanza un rapporto di collaborazione con Blomkvist: è l’inizio della discesa verso l’oblio e la grandezza del dinamismo. Essi, come novelli Adamo ed Eva, tendono alla rappresentazione iconoclastica dell’uomo e della donna e di tutti i vizi, le passioni e i pregi che possono scaturire dall’animo umano: abbiamo tutti delle maschere che portiamo con costanza e alcune di esse sono molto più vive dell’anima che celano.

LA RAGAZZA CON IL TATUAGGIO DEL DRAGO

Il solo parlare di Uomini che odiano le donne è difficile e, anche, disturbante. Il film è un (maledetto) pugno allo stomaco, anzi anche più di uno: vuoi per la violenza (intesa a livello fisico che visivo -il regista ci porta nel climax e lo sbatte in faccia allo spettatore, senza sé e senza ma-) o per lo stato di bruttura che ci viene presentato fin dalle prime sequenze (molto particolare avere le tre trame principali che si incrociano e si collegano sino al culmine finale). Ma se la bruttura (di cui sopra) potrebbe sembrare un collante, si evince dopo poco che, le “odiatissime” donne di cui si parla altro non sono che le metafore violente (o di violenza) di un mondo raccapricciante. Se costoro che le odiano (sempre le donne) il regista (ma in primis lo stesso Stieg Larsson -autore dei libri che compongono la saga-) li rappresenta come la grande normalità delle persone è proprio perché sottolinea la capacità di celare ed offendere, insita da sempre nell’animo dell’uomo. Il cast (stupendo) sviluppa i personaggi alla follia, all’eccesso: Rooney Mara è una Lisbeth Salander meccanica, inteso come status di un essere umano finito nell’automaticità del vivere, e basta. Le ferite e le violenze sono la sua forza, accompagnate dal senso del silenzio e dalla costanza del buio; Lisbeth si muove (e muove) proprio come funziona la sua geniale mente e ciò non è un ostacolo, ma solo la forza pura ed unica di cui lei stessa dispone. E’ la Salander donna che diviene forza con l’ausilio della macchina (hacker/computer) ed ecco spiegata anche la natura del suo incubo (Gli Incubi di Lisbeth Salander presentati nell’opening del film). Daniel Craig porta sullo schermo il ruolo di un giornalista a cui stanno togliendo il proprio lavoro, ma senza arrendersi (mai? Realmente?); il fatto di essere un monumento obsoleto di se stesso, il fatto di poter smettere di rappresentare ciò che esiste, porta l’uomo ad accettare una “missione” (Bond è sempre Bond) che solleverà non pochi intrighi (se il male potesse essere edulcorato e variopinto, o se solo il senso dell’umorismo smettesse di toccare determinate persone) irrisolti, all’interno di una sorta di importante casato. Ma la forza di Mikael Blomkvist è tutta nel suo determinato carattere e nel suo senso investigativo: il personaggio di Craig sfiora, e non poco, quello di un detective mentale, a cui nulla sfugge e tutto è rivelato (e rivelabile, of course).

(UOMINI CHE ODIANO LE DONNE) REGISTI CHE AMANO LA CINEPRESA

Il bellissimo “wonder” di David Fincher è lì, in mezzo a noi, da sempre e la sua pellicola (stavolta) è un immenso tripudio alla rappresentazione della parola capolavoro. Sì può restare ammaliati per ore (per fortuna, considerato che Fincher ha la buona abitudine di coccolare i suoi cultori e non, con pellicole quasi sempre superiori ai 120 minuti) e una volta terminata la pellicola, rivederla da capo ancora una volta (personalmente l’ho fatto) e gridare alle pietre che si è testimoni del bello e del gusto, del nuovo e del rinnovo stesso, della semplicità delle luci e dell’essenza dell’arte recitativa (o dell’elaborazione di essa -intesa come vita, non come mestiere- e di ciò che le compete). Non v’è prova attoriale di simulazione, non ve n’è il bisogno o la richiesta; se ne ha la coscienza: Fincher e il suo maniacale perfezionismo permettono di guardare ogni singola scena come se fossero affreschi narrativi palpabili e sentiti. La sua è una regia che sconvolge in ogni singola pellicola che dirige: con Millennium arriva a narrare con le luci e i silenzi alcune eclatanti rivelazioni, senza mai tralasciare la concretezza viva della storia e la pesantezza di una eredità che viene dal freddo (sia il libro in sé che la precedente pellicola svedese) o la grande facoltà di operare su alcuni degli attori migliori, mai raccolti in un’unica pellicola. Il suo è un Christopher Plummer granitico (fantastica l’eredità che si può scorgere solo nella sua stessa ombra) e lo stesso vale per il sempre ottimo Stellan Skarsgård (quasi compiaciuto dal tocco oscuro). E medesime le presenze della sublime Robin Wright (no more Penn) che scalda il cuore sia per ruolo (caput mundi) sia per ciò che le donne NON odiano, e della bravissima Joely Richardson (Julia McNamara di NIP/TUCK continua a stupire anche fuori dalla clinica di Sean e Christian), esempio lampante di come (proprio come sua madre Vanessa Redgrave) il talento sia forte in coloro che lo possiedono. Da encomio lo stupendo opening coadiuvato da quella Immigrant Song di Trent Reznor, Atticus Ross & Karen O; apertura che mostra gli incubi incessanti che si avvicendano nella mente di Lisbeth: laddove la mente non arriva, anche se con l’aiuto delle macchine, sembra destinata a soccombere dinanzi una forza ben definita –è la psiche della ragazza che lotta gli abusi di una vita– e universale: l’odio stesso.